Delle volte, attraversando la città, ti venisse voglia di andare via...
Ma certo che ti viene. Muovendo uno dopo l'altro dei passi monotoni e regolari, non puoi fare a meno di attribuirti una meta, segnarti un percorso per dimenticare l'insensatezza di ciò che stai facendo. E se mentre prosegui quella tua camminata che sembra più una corsa spezzata qualche passante ti colpisce su una spalla, ti riesce più facile continuare, andare avanti per la tua strada borbottando qualcosa di nascosto, che non girarti a guardare, alzare gli occhi dal marciapiede; perché lo sguardo è basso, concentrato sull'asfalto che i tuoi piedi mangiano a passo di danza, e il passare dal tempo è scandito soltanto dalle lancette di quell'orologio che ogni tanto scruti nervosamente, scostando la manica.
Non puoi fermarti, non puoi sostenere lo sguardo di chi come te sta cercando il modo più facile per non ricordare. Non puoi e non vuoi. Hai da raggiungere l'obiettivo che ti sei prefissato, la giustificazione che ti sei dato per uscire in strada.
Ma delle volte, attraversando la città, ti venisse voglia di andare via, devi alzare gli occhi e guardare. Guarda questi tuoi simili che ormai senti come completamente estranei, perché non hanno più nulla in comune con te, se non appunto la paura del contatto e del ricordo. Guarda le automobili che corrono incessantemente, i cartelloni pubblicitari che si susseguono e cambiano sovrapponendosi in un vortice di colori, senza che nulla accada, senza che ci possa essere una sola speranza, qualcosa da temere o per cui pregare. Guarda e finalmente ricorda, non ti sottrarre più alla memoria. Ricorda che in realtà non c'è niente che tu debba fare, perché la motivazione che hai trovato per immergerti nella folla è soltanto una banale scusa; ricorda la tua paura e il tuo bisogno della strada, ricorda il tuo stupore e la tua vergogna nell'essere immerso in un mondo che non ti può più dare nulla, a cui nulla puoi dare tu stesso.
Di fronte a queste città ormai incollate l'una all'altra senza soluzione di continuità, di fronte a questa successione ininterrotta di case, palazzi e fabbricati, costruzioni, edifici, capannoni, e caseggiati e portoni, e distributori di benzina e negozi di giocattoli, e insegne, fermate, e cassonetti della spazzatura, di fronte a questi zingari che ti chiedono petulanti un'elemosina, a questi operai che per l'ennesima volta distruggono e ricostruiscono la stessa strada, e ancora e ancora, di fronte a tutto questo, non ti senti fuori posto? Non ti viene voglia di andare via?
Ora, se ti fermi un attimo e ti guardi attorno, lo senti con chiarezza: non ha più senso per te stare qui, come forse non ne ha per nessuno. Non ha più senso andare avanti, seguendo una fila di lampioni che non potrà mai finire, né tornare indietro, tornare poi dove? Non resti altro che tu. Tutto quello che ti circonda ormai non vale più niente: è una sterminata metropoli inutile e vuota di cui non ti interessano più le miserie né gli splendori, è un immenso carcere in cui tutti si muovono incessantemente come animali in gabbia, senza ragioni che non siano fittizie e costruite. Nulla più ti commuove, né i monumenti storici né i cartelli di divieto di sosta né i viali alberati né i barboni che dormono per strada, né la vita né la morte né nulla di tutto quello che vedi; hai già spiegato le ali, sei pronto a volare, a scivolare invisibile per le strade che si succedono, si intrecciano, si incrociano e non finiscono mai, fra la gente che tu non vedi e non senti, immobile, imperturbabile.
Indifferente a tutto ciò che ti sta attorno. Come un angelo.
L'angelo grigio del camminare.
(1999)