A mille ce n'è
(Sottotitolo: L'angolo della letteratura spicciola)
In questo spazio pubblicherò gli scritti della mia giovinezza, dal 1995 al 2004, più o meno (ho avuto una giovinezza difficile e soprattutto lunga).
Occasionalmente, in futuro, potrei dare spazio anche ad altri autori emergenti alla ricerca di visibilità e in possesso di un portafoglio ben nutrito.
Per ora parto con questo racconto del 2002.
Il settimo senso
“Dottò, e io vedo ‘a ggente vecchia.”
Nell’udire le parole di Carmine, il mio primo istinto fu quello di guardarmi intorno, in cerca di una qualche apparenza vivente che giustificasse la sua affermazione. Superato lo smarrimento, tentai di buttarla sull’ironico:
“E tu vai a vendere le mozzarelle davanti al tribunale minorile.. qui che cosa speri di trovare?”
Ma avevo fatto male a dire così, e me ne resi conto subito. Nell’espressione di Carmine non c’era la minima traccia di umorismo, tanto che quando mi rivolse nuovamente la parola appariva quasi mortificato, come se con la mia sciocca risata avessi stroncato ogni sua speranza di comprensione.
“No, dottò, è overo. Quando guardo n’omm’, o ‘na femmena, p’a’ strada, vedo subbito la faccia sua da vecchio. Pure i guaglioni. Ma non tutti, però; certi solamente.”
Carmine era un napoletano verace, o almeno così aveva sempre dichiarato. A dire la verità, per molto tempo ne avevo dubitato: sembrava che facesse finta, calcando apposta la mano su certi atteggiamenti, parlando un italiano fluente in cui parevano incastrate a forza alcune espressioni dialettali, per giunta le più logore e abusate, quasi dei luoghi comuni buttati lì a bella posta per impressionare l’interlocutore.
Ma poi un giorno, incuriosito e senza dubbio affamato, avevo assaggiato le mozzarelle. Ero stato più di cinque minuti alle spalle del cancelliere Capone, spiandolo mentre acquistava una busta stracolma di latticini, finché Carmine non si era fatto avanti per offrirmi un assaggio. (Non è che aspettassi per avarizia: io sono fatto così, come ogni giudice non sono adatto a prendere decisioni.)
Già tagliandone un boccone, e bagnandomi le dita del suo succo lattiginoso, avevo potuto apprezzare la consistenza morbida e porosa, quasi infantile, della mozzarella. Poi azzardai un morso, e sentii l’aroma invadermi le narici, le mani degli impastatori muoversi tra le mie guance, il nodo di latte sciogliersi miracolosamente in bocca..
Non mi feci più domande sull’albero genealogico di Carmine e diventai, una volta alla settimana, suo cliente fisso. La stima che provavo per lui, consapevole messaggero di gioia, era pari soltanto a quella che lui riponeva in me, come uomo di cultura e sapienza. Ed ora era proprio a me che veniva a confidare il suo cruccio, la sua preoccupazione, di più: mi proponeva la sua domanda esistenziale, mi chiedeva di condividere una visione del mondo.
Perché dopo qualche spiegazione avevo capito, più o meno, di cosa si trattava: alle persone che incontrava, clienti o meno, Carmine leggeva in volto i lineamenti che avrebbero avuto venti, trenta, quarant’anni dopo; da vecchi, insomma. E non si trattava di una scelta; non è che egli si dilettasse a fare congetture sul futuro dei passanti, e del resto non ne avrebbe avuto il tempo. Semplicemente, gli bastava cogliere una particolare smorfia del viso, o un profilo solitamente nascosto, per immaginare le variazioni imposte dal tempo. La cosa, com’è ovvio, lo turbava.
Non si poteva dire che fosse bello, Carmine. Tuttavia aveva carisma, freschezza, e un certo fascino che attirava indiscutibilmente le donne; avrei potuto giurare che da giovane fosse stato, se non un playboy, quantomeno l’oggetto del desiderio di molte ragazze. Lo dico perché in quel momento mi apparve in maniera lampante che per Carmine questo fatto della “ggente vecchia” non era soltanto un’allucinazione, un brutto sogno, ma un principio che regolava tutta la sua vita. Mai avrebbe potuto accettare di passare tutta la sua vita con una donna che immaginava già sessantenne, seduta in poltrona a sferruzzare: e difatti, di sua moglie si poteva dire tutto meno che non fosse giovanile.
Solo raramente la si vedeva gironzolare intorno al baracchino delle mozzarelle: era una donna violenta, passionale, sempre pronta ad attaccare briga, anche con i clienti. Era chiaro come il sole che urla, litigi, tradimenti fossero all’ordine del giorno tra i due coniugi; eppure in quella donna insopportabile c’era qualcosa di diverso. Qualcosa che rendeva impossibile, anche con uno sforzo estremo, immaginarla in età avanzata.
Mentre riflettevo su questo, la mia più grande preoccupazione era che Carmine fosse costretto ad abbandonare il suo posto di lavoro. Si erano già avuti dei segnali inquietanti in questo senso. In particolare ne avevo avuto sentore parlando nei corridoi con il procuratore De Biase, napoletano anch’egli:
“Chillo proprio accà davanti ‘o tribbunale ha dda sta’? ‘O capisci.. ‘a nuostra immaggine..”
De Biase era sempre alla ricerca del decoro che nobilitasse la giustizia, dimenticando a volte la giustizia che avrebbe nobilitato il decoro. Comunque, era efficace e temibile, di solito preferiva agire e tacere: quindi, il fatto che avesse parlato di questo argomento in qualche modo mi tranquillizzò, convincendomi che avrebbe finito per non fare nulla.
Infatti, non fu lui a muoversi. Una mattina trovai davanti all’ingresso del tribunale Francesconi, un parolaio zelante, che tutto impettito, mosso da un orgoglio incomprensibile e incompreso, dava indicazioni per far sgombrare l’area dagli intrusi abusivi. Francesconi era stato istigato dal custode, un uomo astioso che da tempo covava qualche sordida vendetta nei confronti di Carmine, per uno di quegli inspiegabili odi che sorgono spesso tra chi versa nelle stesse difficoltà.
Non potevo fare nulla per difendere il mio fornitore e, del resto, forse non l’avrei fatto: per lui io ero la voce della saggezza, il servitore della giustizia. Che cosa avrebbe pensato se per aiutarlo avessi violato le leggi? Era questo che mi frenava: era il decoro, come avrebbe detto De Biase.
Sono rimasto così da solo, senza mozzarelle e con i miei dubbi sulle visioni che angosciavano (angosciano) Carmine. Nella mia mente guastata dal ragionamento, allenata a tarli e rovelli, ho ormai ricostruito quella che doveva essere la sua teoria. Secondo Carmine, probabilmente, esistono due tipi di persone: alcuni, fin da giovani, hanno impresso in volto ciò che sarà di loro in futuro, e sono destinati a non cambiare mai. Manterranno per sempre i loro lineamenti, e implicitamente il loro carattere, i loro difetti, le loro ossessioni; perché in loro, oltre all’aspetto, c’è anche l’inerzia degli anziani, c’è lo stimolo alla pigrizia, la ricerca della comodità, la tentazione di rimanere uguali a se stessi. Non ho mai saputo se per Carmine io appartenessi a questa categoria.
In ogni caso, mi sono spinto molto più avanti nell’analisi, e mi piacerebbe discuterne con l’ispiratore di tutto questo, magari davanti ad un piatto di mozzarelle fresche con olio e pepe. Per ora ripercorro le sue orme, e in ogni volto che incrocio cerco di scorgere i segni dell’età più avanzata. Sono sempre più convinto che alla fine in tutti gli occhi riuscirò a vedere gli occhi di un anziano; che, come in una mozzarella, anche negli uomini le qualità rimangano inalterate dal latte appena munto fino alla fine dell’ultimo boccone, e che in fondo non sia possibile invecchiare mai.