ZETA
Era bianca, completamente bianca. Cioè, era nera, perché era tutta fatta di basalto; ma il sole la illuminava rendendola candida e accecante, e anche di notte, guardandola, sentivi male agli occhi. Alle sorgenti del Rio Preto si innalzava la città, ed era una città bianca e misteriosa, perché misteriosi erano i suoi abitanti, quasi certamente quelli del Popolo Antico, e misteriose le sue lettere incise nella roccia.
Non l’ho mai vista, naturalmente, e nessuno l’ha mai vista perché nessuno la può vedere. “Ma anche se Raposo l’ha sognata” diceva il Colonnello, “e anche se gli indigeni l’hanno sognata, Zeta esiste. Io sono da vent’anni in America e ho capito, ne sono sicuro”. Anch’io ero sicuro, avevo capito; anch’io, di notte, la sognavo, i cerchi magici e l’oro e l’alabastro, e quelli del Popolo Antico che gridavano, immersi nel biancore abbagliante, e tutte insieme le loro grida salivano al cielo dalle terrazze e dalle cime delle torri infinite e sembravano un canto, il canto della luce.
Jack era morto, probabilmente. Non riesco a ricordare, ma penso che dovesse essere morto, perché ho impresso negli occhi il dolore degli occhi del Colonnello, e perché da un certo punto in poi lui non c’era più, questo lo ricordo bene, eravamo soli il Colonnello e io nella foresta. Sì, era morto, naturalmente era morto. Forse lo avevano attaccato, colpendolo al collo con le frecce acuminate, ma lui era riuscito a sopravvivere ancora qualche giorno. O più probabilmente lo avevamo lasciato in qualche villaggio indigeno, in preda alle febbri e al delirio.
Anch’io ero malato. Passavo il giorno a sudare, e mi sembrava di nuotare in un solo grande intrico di piante e terra, senza mai riuscire a respirare l’aria. Non potevo dormire e mangiare, e dovemmo lasciare il baule in mezzo alla foresta perché non ne sopportavo più il peso sulla schiena. Il Colonnello mi costringeva a inghiottire quelle erbe curative di Roberto, e mi colpiva sulla schiena per farmele mandare giù; e più mi curavo, più vedevo i portali neri di Zeta aprirsi e innalzarsi fino al sole, e le aquile e i giaguari dei bassorilievi prendevano vita e si sfidavano nel cielo.
Ricordo quando dormimmo al Campo del Cavallo Morto; era lì che il Colonnello si era dovuto fermare con la sua prima spedizione. Jack era ancora vivo, allora, e io stavo bene, o così credevo. Il Colonnello lasciò andare i mulattieri spaventati, e diede loro una lettera per la moglie. Diceva che ce l’avremmo fatta.
“Ho paura, Raleigh” mi confidò il Colonnello guardando il fuoco che si spegneva piano.
“Paura di che cosa, Colonnello?” risposi io, intimorito dal verde e dal buio. Jack dormiva già nel suo sacco. Il Colonnello si tolse il cappello e rimase pensieroso.
“Ce la faremo, non è vero?” insistetti.
“Non è questa la mia preoccupazione, non è questa, davvero. Nessuno ci farà del male, e comunque so a cosa andiamo incontro. Il mio timore è di non trovarla, di non vedere mai le torri e le statue di Zeta. Se torneremo a casa senza niente in mano, diranno che sono un pazzo, un visionario accecato dalla sete di ricchezze. Non capiscono, non potranno capire: Zeta è la città perduta. Io devo trovarla.”
“Io la capisco, Colonnello” gli risposi sinceramente. Lui tacque; forse non mi credeva, o forse era sicuro della mia buona fede. Rimasi solo ad assaporare il caldo umido di quella notte di maggio.
Le forze mi mancavano. Volevo piegare le gambe ma quelle rimanevano molli, snodate; mi sgorgavano le lacrime dagli occhi, a fiumi, eppure non piangevo. Vedevo le piante muoversi e tendermi trabocchetti, e tagliarmi la strada. Il Colonnello mi guardava, mi sorreggeva e non diceva niente; nonostante tutto continuavo ad avanzare, e per quanto poco mi ricordi di quei momenti, posso giurare di non essermi mai fermato.
Forse l’ho ucciso io. Non posso ricordare. Forse ho visto uno di loro, uno del Popolo Antico. Era bianco, il suo volto chiarissimo splendeva tra le pietre nere. Aveva i capelli rossi come il fuoco e le piante lo avvolgevano da ogni lato, attorcigliandosi in spire verdi. Forse lui mi ha detto di ucciderlo. Forse Zeta non voleva… non ricordo, non ricordo più nulla.
Mi sono ritrovato su una baracca in riva al fiume. Le torri erano lontane. Forse l’ho ucciso io. Non volevo, ma forse l’ho ucciso.
Mi ritorna alla mente solo una scena, solo Dio sa se è allucinazione o realtà. Ero rimasto indietro, strisciando tra il fogliame. Il Colonnello aveva fatto uno scatto in avanti, e non lo vidi né udii più per qualche minuto. Ebbi paura che fosse caduto in un’imboscata, in qualche trappola degli indigeni.
Urlai con la poca voce che avevo in corpo: “Colonnello! Colonnello Fawcett!” Sentii la sua risposta arrivare, sorda e rimbombante, come da un altro mondo: “L’abbiamo trovata! Siamo arrivati! Vieni a vedere, Raleigh: è lei, è Zeta. E’ proprio come aveva detto Raposo.. le torri, i portali.. come dicevano gli indios.. i palazzi sono illuminati dalle stelle.. le stelle cadute dal cielo”.
Arrivai allo spiazzo da cui proveniva la voce, con fatica immensa e con una speranza altrettanto immensa negli occhi. Non ricordo di aver visto Zeta. Ma nel calore e nel ronzio di quella sera brasiliana, il Colonnello Percy Fawcett era sparito.
(2002)
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